Affrontare la pietà degli altri

Dopo un fallimento, spesso ci prepariamo al peggio: ci aspettiamo sguardi giudicanti, commenti velenosi, silenzi carichi di imbarazzo. Sappiamo che qualcuno riderà alle nostre spalle, che qualcun altro userà la nostra caduta per sentirsi superiore.

Ma quello che ci colpisce davvero, quello che fa più male, è quando la crudeltà si traveste da gentilezza. Quando ci parlano con voce dolce e preoccupata, ci mandano messaggi affettuosi pieni di “poverino”, ci dicono “puoi chiamarmi quando vuoi”, e poi… ci lasciano soli.

Non è empatia, è pietà. E la pietà ci fa sentire più lontani dagli altri che il disprezzo.

Chi prova pietà non ci sta davvero accanto: ci guarda dall’alto, con lo sguardo di chi pensa: “Meno male che non è successo a me.” La sua preoccupazione non nasce da un cuore aperto, ma da un bisogno disperato di tenersi a distanza dalla nostra fragilità. Di illudersi che non potrà mai toccarlo, che lui è diverso, più forte, più stabile.

Ma la verità è che la vita è incerta per tutti. E chi è davvero empatico lo sa. Non ha bisogno di farci sentire speciali nel dolore – perché sa che quel dolore potrebbe toccarlo da un momento all’altro. Chi ci consola davvero lo fa da pari, non tende la mano da una barca di salvataggio: si siede con noi sulla riva, ascolta, e basta.

Quando ci parlano con un tono troppo dolce, quando ci sentiamo come pazienti da trattare con i guanti, quando ci chiediamo “Perché mi sento ancora più solo, nonostante le loro parole?”, ricordiamoci: non è empatia, è distanza travestita da cura. E non siamo noi quelli da compatire. Noi abbiamo già toccato l’abisso e stiamo risalendo. Loro stanno ancora fingendo che l’abisso non esista.

Pillole chiave della riflessione di oggi:

  • La pietà non è empatia: è distanza, paura e bisogno di sentirsi superiori.

  • Dopo un fallimento, la gentilezza vuota può farci sentire ancora più soli.

  • Chi prova vera empatia riconosce che tutti possono cadere.

  • Possiamo imparare a distinguere le parole che curano da quelle che isolano.

  • Non siamo noi a doverci vergognare della nostra caduta. Chi non la comprende, forse, non è pronto ad affrontare la propria fragilità.

Domanda su cui riflettere oggi:

Quando qualcuno mi ha “consolato”, mi sono mai sentito ancora più solo?

Merito empatia, non pietà. La mia vulnerabilità non è un difetto: è il mio coraggio in azione.

*Questo contenuto fa parte della piattaforma Thatsos, uno spazio pensato per aiutarti a crescere, guarire, capirti davvero e stare meglio. Dentro la piattaforma troverai percorsi per esplorare le tue emozioni dall’ansia alla rabbia, tecniche per gestirle, articoli che ti faranno riflettere e un diario dove scrivere liberamente ciò che provi e come ti senti.